La Casa del Terrore di Budapest

“How many times must a man look up, before he can see the sky?
Yes, ‘n’ how many ears must one man have before he can hear people cry?
Yes, ‘n’ how many deaths will it take till he knows that too many people have died?
Yes, ‘n’ how many years can some people exist before they’re allowed to be free?
Yes, ‘n’ how many times can a man turn his head, pretending he just doesn’t see?”
Bob Dilan

Casa del Terrore a Budapest Esterno

Siamo a Pest, in Via Andrássy, Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Al numero 60, per l’esattezza.
All’angolo della strada c’è un edificio alto e nero. Ha una piccola tettoia in ferro, dove è intagliata una scritta chiara, diretta, scolpita a caratteri cubitali: Terror.
Lo sguardo si abbassa, segue quel muro, fino ad incontrare le foto in bianco e nero, consumate dal tempo, di chi qui dentro ci ha perso la vita.
Per una libertà distrutta, per una libertà da riconquistare.
E’ questo il primo, forte impatto con la Casa del Terrore di Budapest.
Un impatto violento, come se quel muro nero e quella scritta ti colpissero dritto in faccia.

Casa del Terrore di Budapest scritta esterna

E’ una visita cruda, che non risparmia nulla.
Vuole mostrare il vero lato delle dittature, dei regimi di qualsiasi colore. Sia il nero che il rosso infatti imperano ovunque.
Rosso come il sangue versato, nero come la morte regina di quegli anni.

La durezza della visita serve a non far dimenticare. E’ una ferita ancora troppo fresca nel paese, un coltello che ha smesso di girare nella piaga da troppi pochi anni perchè possa aver smesso di fare male.
La musica che accompagna ogni sala è profonda, lenta, pesante. La musica di un funerale, il funerale della libertà, dell’umanità.
6,30 euro circa (2000 Fiorini ungheresi) ed inizia la visita.

Casa del Terrore di Budapest carrarmato

Ad accoglierti all’interno del Museo c’è un carro armato T54. Quelli che più resistevano alla guerriglia urbana.
Quelli che hanno invaso le strade di Budapest e dell’Ungheria nel 1956, per fermare la rivoluzione.
A febbraio del 1956, Krushchev, Primo Segretario del Partito Comunista, portò alla luce i crimini umani dell’era Staliniana, così il 23 ottobre dello stesso anno molte città dell’Ungheria si riempirono di manifestazioni guidate dagli studenti di ogni ceto sociale. La polizia al servizio dei pochi comunisti rimasti aprì il fuoco contro le folle disarmate, ed ebbe inizio la lotta armata che divenne presto una vera e propria guerra di liberazione. La popolazione si oppose con le unghie e con i denti alla dittatura sovietica, affrontando i soldati russi ed ungheresi, finchè non li costrinse alla ritirata. Il Governo sciolse l’Autorità per la Protezione dello Stato (AVO), complice dei peggiori crimini del regime, e promise elezioni libere.
L’URSS declamò il suo desiderio di rivedere le relazioni con i paesi socialisti, ma solo 24 ore dopo ordinò di reprimere nel sangue la lotta degli ungheresi per la libertà. Così, il 4 novembre, truppe sovietiche varcarono i confini del paese, inondando le strade di carri armati e soldati.
20 mila feriti, 2500 morti, 200 mila persone in fuga dal paese, 5 mila arresti, 450 manifestanti fucilati in piazza, 15 mila persone condannate e 229 giustiziate.
Questo è quello che racconta quel singolo carro armato all’ingresso: che non esistono paesi piccoli, ma solo paesi impotenti.
Ed è solo l’ingresso.

Si prosegue. Si passeggia attraverso i ricordi della doppia occupazione, che vide l’Ungheria schiacciata tra le due grandi potenze della Seconda Guerra Mondiale: la Germania nazista e la Russia comunista. Subì i primi bombardamenti nel 1941 da parte della Russia, contro la quale fu dichiarato stato di guerra, ma nel marzo 1944 si ritrovò sotto l’occupazione nazista, che mise subito in atto le leggi antisemite, applicate dal Judenkommando. Ad agosto dello stesso anno furono le truppe sovietiche a varcare i confini ungheresi, e il paese fu teatro di una crudelissima lotta, finchè la Germania non fu spazzata via.
Si imposero le leggi sovietiche, che sarebbero rimaste a governare il paese per decenni.

casa del terrore budapest rosso e nero

Così come i nazisti fecero deportare gli ebrei nei campi di concentramento, i comunisti fecero deportare chiunque avesse origini tedesche, o chiunque venisse considerato nemico del regime, nei gulag. L’ultimo prigioniero di guerra sovietico fece ritorno a casa nel 2000.
Ciò che ne fecero dei prigionieri si può vedere e leggere nel corridoio delle saponette.

Negli anni 50 furono chiuse e minate le frontiere, i partiti politici furono messi al bando, furono dichiarate fuori legge tutte le ideologie che andavano contro il partito, fu cambiata la costituzione, il paese fu condotto alla bancarotta da un sistema economico chiuso e centralizzato. Gli scaffali dei negozi erano vuoti, pane e zucchero furono razionati, tutto venne politicizzato, perfino le scuole materne. Sul posto di lavoro bisognava continuamente confermare la fede al regime, si era obbligati a partecipare ai seminari e ai sabati di volontariato, l’inno ungherese fu eliminato e al suo posto veniva suonato l’inno sovietico o l’Internazionale.
I processi erano fasulli, la gente veniva incarcerata e condannata per un semplice applauso più basso.

Qui, in via Andrássy, c’era la sede dell’AVO, la polizia di controllo del regime, una vera e propria macchina del terrore. Chiunque passasse qui fuori, poteva sentire le urla provenire dai sotterranei, dove si trovavano le prigioni. Urla che si sentivano a qualsiasi ora del giorno e della notte. Non erano semplici prigioni queste, ma veri e proprio luoghi di tortura ai quali era difficile sopravvivere.
Si sente ancora oggi odore di chiuso e le gocce d’acqua che cadono in lontananza, in chissà quale buco. La nenia che, anche allora, accompagnava le urla e i gemiti dei prigionieri.

Dopo le celle, il colpo di grazia: una sala dalle pareti rosse e nere a cui sono appese tutte le foto degli aguzzini, nazisti e comunisti.
Molti dei quali sono ancora vivi… e si sente montare la rabbia dentro. Ci si chiede come si possa ancora vivere dopo aver fatto tanto male, dopo essere stati complici di una strage, di un crimine contro l’umanità così grande, così grave, così crudo.

Usciti dalla Casa del Terrore di Budapest non è facile camminare per le strade della città… si guarda tutto con altri occhi.
Vita compresa.

8 comments

  1. Ho ancora i brividi se penso alle saponette (anche se finte) della casa del terrore di Budapest. L’ho trovata reale, estremamente reale.
    E una volta uscita ho guardato tutto con altri occhi, proprio come hai detto tu.

    1. E l’ascensore che porta alle celle? Sembra un film horror, tutta la casa…
      Però non si può perdere, proprio perchè nel suo essere così cruda è una lezione vera e propria.
      La cosa che più mi ha colpito in assoluto della città…

        1. Come hai detto tu, lascia un ricordo amaro… “colpito” in questo senso.
          Budapest poi è tanto altro di bello 😀

    1. Non ti era piaciuta?
      Io credo sia meglio in estate che in inverno… ma questo museo va bene per ogni stagione!

  2. Visitato qualche giorno fa… Un luogo che ti segna e ti toglie il fiato.. Mio figlio di 8 anni che non si spiega tanta cattiveria tra persone… Si consiglia l’audio guida per chi dovesse andare..

    1. Ciao Michele, sono d’accordo con te, posti del genere segnano dentro… per questo è necessario che ci siano e ancor di più visitarli. Bisogna ricordare e non rifare gli stessi errori… la Memoria è fondamentale!

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